I TRE GIOVANI NELLA FORNACE

Nabucodonosor, re di Babilonia, «ordinò di condurgli giovani israeliti di stirpe regale e di famiglia nobile, senza difetti, di bell'aspetto, dotati di ogni sapienza, istruiti, intelligenti e tali da poter stare alla reggia... Fra loro vi erano alcuni giudei: Daniele, Anania, Misaele e Azaria. Però il capo dei funzionari di corte diede loro altri nomi chiamando Daniele Baltassàr, Anania Sedrac, Misaele Mesac e Azaria Abdenego». Sono tra le prime righe del libro biblico di Daniele, collocato tra i quattro profeti maggiori, anche se lo scritto appartiene al genere "apocalittico", una forma letteraria e teologica dallo stile forte, segnata da una concezione pessimistica della storia presente, in attesa di un'èra futura perfetta e libera dal male.
La curiosità di questo libro è che è scritto in tre lingue: all'ebraico di base si inseriscono alcuni capitoli in aramaico (dal 2 al 7) e brevi parti in greco. Noi, però, fissiamo la nostra attenzione su questi giovani ebrei cooptati alla corte del re babilonese distruttore di Gerusalemme nel 586 a.C. (anche se il libro suppone la repressione siro-ellenistica del re Antioco IV Epifane del II sec. a.C.). Daniele è il capofila e brillerà per la sua capacità di interpretare i sogni, considerati nell'antico Vicino Oriente come rivelazioni divine. Gli altri tre entrano in scena come coraggiosi testimoni della loro fede, figure che rifulgono anche oggi nei martiri cristiani, perseguitati e annientati dalla ferocia del fondamentalismo che si ammanta di religione ma che è solo una forza satanica.
Al re che li costringe al culto di una sua statua d'oro essi rispondono senza esitazione, anche di fronte alla minaccia di essere votati a una fornace di fuoco: «Noi non abbiamo bisogno di darti alcuna risposta in proposito; sappi però che il nostro Dio, che serviamo, può liberarci dalla fornace di fuoco ardente e dalla tua mano, o re. Ma anche se non ci liberasse, sappi, o re, che noi non serviremo mai i tuoi dèi e non adoreremo la statua d'oro che tu hai eretto» (3,16-18). Dio, però, non li abbandona e sono celebri i due inni che essi intonano «passeggiando in mezzo alle fiamme» (3,24-90).
Il primo è un cantico penitenziale (3,24-45), mentre il secondo è una benedizione corale che coinvolge la natura nella lode del Creatore, un canto ritmico che convoca tutte le creature, dalle stelle agli elementi terrestri fino agli abissi degli oceani, in una lode incessante a cui, in finale, si associano i tre giovani (3,52-90). Essi sono come immersi in un'oasi non lambita dalle fiamme, ove «soffia un vento pieno di rugiada» (3,50), simbolo della protezione divina del giusto anche nel tempo della prova. La scena verrà replicata anche per Daniele, il protagonista, il cui nome signica "Dio giudica". Ora la cornice storica è diversa e vede sul trono Dario il Medo, in realtà un sovrano forse da ricondurre ai persiani.
Daniele rifiuta di abbandonare il culto del suo Dio, secondo l'imposizione del decreto reale e, così, viene gettato in una fossa popolata di leoni affamati (6,17-25). La scena è entrata trionfalmente nella storia dell'arte, a partire dagli affreschi delle catacombe. Ed è un simbolo della fede testimoniata senza paura della morte. Con questi quattro giovani si ribadisce idealmente la necessità della coerenza nella testimonianza della propria fede e anche la capacità di non vergognarsi di professarla davanti al mondo. Il grande poeta tedesco Goethe, anche se in senso morale generale, ammoniva: «Il più sciocco fra tutti gli errori è quando giovani anche intelligenti credono di perdere la loro originalità, se devono riconoscere quelle verità che già da altri sono state affermate». È, quindi, necessario conservare e proclamare le verità della fede che sono la nostra eredità e identità.